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17 luglio 2010

RACCONTO DI UN SILENZIO (PARTE 2)

Lento il respiro riprese a segnare il tempo in me e rialzai lo sguardo. Era sempre lì, tra le mie labbra e i miei pensieri che mi chiedeva di parlare e mi tormentava con le sue domande. Voleva sapere. Ma c'erano state troppe cose,  c’erano stati tutti quegli anni prima. Anni riempiti da migliaia di visi di persone che mi erano passate davanti, lasciando il più delle volte solo una immagine dai contorni vaghi, qualche parola che non ricordo, forse profumi, un odore. E poi i nomi. Quelli se ne erano andati e venuti, si erano accavallati nelle agende e nella memoria e il più delle volte non avevano evocato altro che un momento o la promessa mai mantenuta di rivederci ancora una volta.
Tutti quegli anni erano passati spalmandomi sulla pelle l’invisibile tratto di un pensiero che muta, lentamente e inesorabilmente. Anni, che giorno dopo giorno avevano spostato le pedine di un gioco indecifrabile, deformato e piegato le trincee delle paure e dei tabù. Mi sentivo come Giano bifronte, capace di vedere le cose da ogni punto di vista e in grado di giustificare sia il bene che il male, ma soprattutto in grado di dare un alibi ad ogni mio errore.
Si trattava adesso di passare in rassegna tutti i miei difetti, senza fermarsi davanti agli specchi ingannatori dell’ipocrisia, enunciare tutti gli errori, tagliarsi le mani con le occasioni mancate e
spegnere gli ultimi focolai del desiderio d’amore.
I passi da fare per arrivare alla fine della mia esistenza li potevo contare con buona approssimazione sopra il calendario della cucina; era uno di quei calendari con il numero del giorno scritto in rosso e che ricordo si usavano a scuola; tutti i giorni la maestra entrando incaricava qualcuno di noi a strappare il foglio di carta leggera, quasi una velina, per scoprire un nuovo giorno. Un gesto senza importanza, che mai avrei pensato di ritrovare sedimentato sotto milioni di pensieri, ma che continuava a perpetuarsi nel tempo, senza tregua, scavando sotto la coscienza e lasciando solo cicatrici.
Rimasi seduto lì, su quella pietra che dalla cima del monte dominava tutto, per molte ore, con il desiderio di vedere sprofondare tutto dentro un buco nero. Alle mie spalle sorgeva un santuario dedicato alla madonna, uno dei tanti sacrari appoggiati sulla sommità di lunghe salite; come se non fosse già abbastanza penoso il dover pregare c'era anche il bisogno di salire fin quassù per farlo.
Io non avevo bisogno di pregare, e non credo di averne mai sentito il desiderio. Non ho mai creduto in nulla  che non fosse un qualcosa di tangibile. Il resto erano pensieri che nemmeno mi sfioravano....
(...) CONTINUA...

03 luglio 2010

Racconto di un silenzio (1° parte)

Avevo cercato di capire il senso di quella giornata aspettandone la fine.
M'inerpicai lungo quella piccola stradina di acciottolato, quasi correndo per non avere il tempo per pensare, non in quel momento. Speravo mai più.

Quando il respiro si fece affannato ed il cuore cominciò a urlare, trovai il tempo per lasciare che il dolore arrivasse; la sua voce è sempre lenta, trascina le parole nella bocca e poi te le scaglia nel cuore. Non volevo ascoltare le mie menzogne, e nemmeno le carezze che se ne erano andate via dalla mia pelle.
Si arriva a comprendere gli errori solo dopo averli commessi e quel giorno sarebbe stato un grande maestro per me.
Mi misi in ginocchio aspettando che le gambe cominciassero a farmi male; le mani appoggiavano sull'acciottolato, la testa chinata in avanti e sentivo il sudore attraversarmi il viso fino a sporgersi dal mento e cadere sul terreno; guardavo quelle piccole gocce sbattere a terra con cadenza quasi regolare e non riuscivo a pensare ad altro che non fosse una maledizione.
Su per quella strada cercavo qualcosa che sapevo non avrei mai cercato. Avevo gettato via un altro altro sogno, il più dolce, il più grande, il più vero.
Le salite sono anche discese, hanno percorsi uguali e speranze e prospettive diverse.
Rimasi lì, come in preghiera, ripetendo sottovoce un nome, che si confondeva con lo scirocco. Quel nome era l'unica verità che potessi raccontare, quel vento era il solo che potesse ascoltare i miei peccati.
Ora i conti sarebbero tornati, il danno fatto aveva un tempo, un nome, un luogo.
Non c'era altro che il tempo che passava e quel nome che bruciava le mie labbra. Avevo spazzato via la mia felicità dentro alla paura della pietà, nella vergogna di un passato senza nome, dentro l'ultimo briciolo di coraggio che avevo lasciato chiamare codardia.
Lento il respiro riprese a segnare il tempo in me e rialzai lo sguardo. Era sempre lì, tra le mie labbra e i miei pensieri che...()


(...)


02 luglio 2010

Anubi

Un vento caldo
penetra in me,
prosciuga il respiro,
taglia la pelle,
alimenta la sete.
E'un silenzioso vento
che trascina con sé
sabbia e braci
che mi renderanno sterile
e morta terra.
Una mano mi si posa sulla spalla,
una mano con gli artigli,
che germisce il mio silenzio.